La vergogna, gli affari, il sesso e l'identità rubata: "Assandira" è un giallo eccezionale con domanda finale
Il regista di "Ballo a tre passi" e "Bellas Mariposas" porta sul grande schermo il romanzo di Giulio Angioni. Recensione del film che ha entusiasmato alla Mostra di Venezia

"L'ho fatto per la vergogna". In Sardegna la vergogna può ancora essere come una maledizione, più di una condanna inflitta dalla legge, più di una pena carceraria. In un mondo che non ha più vergogna di niente, che mette in piazza tutti i peggiori comportamenti (moltiplicandoli e amplificandoli sui social e facendoli passare per il mostrare personalità e carattere), l'anziano ex bambino pastore Costantino Saru (uno straordinario Gavino Ledda, perfetto nella parte) sempre rimasto uomo di fatica, di terra, di allevamento e quindi definitivamente pastore, racconta come la vergogna è diventata il carburante della sua reazione finale. La stessa vergogna che ora toglie il senso alla vita stessa. C'è tutto questo e molto altro nell'ottimo Assandira, del regista Salvatore Mereu, tratto da uno dei romanzi più belli di Giulio Angioni, che chi scrive ha avuto l'onore di avere come docente di antropologia culturale all'Università, e anche come compaesano, per un certo periodo. Assandira è un giallo a tinte noir che come uno scrigno fuligginoso cela un discorso importante, lucido, critico e per certi versi spietato su cosa sia l'identità. E fin dove ci si possa spingere per difenderla. Il film ha entusiasmato alla proiezione nell'ambito della Mostra del Cinema di Venezia. Lo abbiamo visto alla Ex Manifattura di Cagliari, proiezione organizzata da Sardegna Film Commission in collaborazione con Spazio Odissea.
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Un inizio apocalittico
Parte dopo le fiamme e in mezzo alla cenere e all'acqua torrenziale, Assandira. Nome dell'agriturismo in cui Mario (Marco Zucca) figlio di Costantino tornato dalla Germania con la moglie Grete (Anna Konig) ad inventarsi una vita sarda e una sardità fittizie, ha trasformato un vecchio rudere di famiglia. Una proprietà, ripete l'anziano padre segnato dal lavoro, che "non ci ha mai portato fortuna". Gli scontri tra generazioni e tra culture (lo sguardo e la concezione sarda antica del vecchio, la modernità e la spregiudicatezza imprenditoriale di Grete con Mario nel mezzo) lasciano spazio agli affari. Che vanno alla grande. Assandira diventa una sorta di parco giochi dell'identità sarda, un luna park per turisti, soprattutto stranieri, in cui la sardità viene trasformata in messinscena amplificata. L'uccisione delle bestie, la mungitura delle pecore, il gioco del 'fuoco dentro' che consiste nel fumare un sigaro al contrario, la cottura del maialetto, il cavallo bardato in modo spettacolare per permettere ai turisti di ritrarlo diventano parodie di se stesse. Costantino brontola, si ribella, trova orribile quell'attività che prospera nell'inganno. Ma "un padre deve aiutare suo figlio". "Non fare niente, basta che fai quello che sei, un pastore, la gente vuole vedere quello" le dice Grete che comincia a sedurlo.

"Il seme di tuo figlio è debole". Poi le fiamme
Con i Carabinieri e il magistrato (Corrado Giannetti, di estrazione teatrale e molto bravo a trattenere tutti gli eccessi di espressione e volume che spesso il teatro lascia addosso agli attori, e che non vengono perdonati da quell'amplificatore che è la macchina da presa) che si muovono tra le macerie di Assandira per cercare di capire chi abbia dato fuoco all'agriturismo, fra le fiamme del quale ha trovato la morte lo stesso Mario mentre Grete finisce in ospedale in fin di vita col figlio che dovrebbe partorire, Costantino Saru ricostruisce riluttante l'accaduto e offre allo spettatore il suo sguardo "laterale" su un mondo in cui i canti sardi per gli ospiti che si "devono divertire" a tutti i costi vengono eseguiti mentre un giovane chiede al cantore "non lo sai un pezzo dei Nirvana"? E in cui il sesso si prende tutto, come un' onda nera che vince la vergogna di Costantino, offre la soluzione per far restare incinta Grete ("il seme di tuo figlio è debole") e sempre il sesso avvolge ogni cosa portando l'anziano pastore a una scoperta devastante. E al finale tra le fiamme e sotto l'acqua.

Un finale inatteso e che potrebbe perfino essere doppio. Mereu gira benissimo (inquadrature strette, mai una panoramica, la macchina da presa sempre addosso agli attori e alla loro fisicità) rende l'atmosfera secca e tesa del romanzo di Angioni. E a giallo risolto lascia in tasca a noi spettatori la domanda: di cosa abbiamo ancora vergogna, quando si tratta di difendere la nostra identità? C'è qualcosa che sentiamo come tale, come identità di popolo?