Ranucci: "La scelta che ho fatto, e la mia vita sotto minaccia e sotto scorta. Ma resistere è fondamentale"
Il conduttore di Report racconta la lotta per dare credibilità al giornalismo d'inchiesta e gli attacchi continui subiti. Mentre il giornalismo soffre parecchi mali
Quanto costa l'aver scelto di vivere per fare informazione, tanto più sul fronte dell'inchiesta? E quanto è sopportabile vivere costantemente sotto pressione e anche sotto scorta a causa di questa scelta? Non c'è alcun vittimismo nell'analisi che facciamo in questa intervista con Sigrfido Ranucci, da anni al timone di Report, uno dei programmi Rai più visti e dibattuti. Quello che segue è un botta e risposta nel giorno in cui il presidente Mattarella, nel discorso del Ventaglio, lancia l'allarme sugli attacchi alla libertà di informazione in Italia. Per cui il nostro Paese è osservato speciale nel recente report Ue e anche oltre. Ranucci è anche protagonista di un tour in Sardegna per presentare il suo libro La scelta, per cui sarà ospite nel programma del festival Liquida (25-28 luglio, a Saccargia/Codrongianos).
Sigfrido, il presidente della Repubblica ha appena parlato di attentato all'informazione in Italia. Siamo in pericolo?
"Il capo dello Stato non parla mai a caso. Credo che ci sia un rischio davvero grosso per la perdità di libertà di stampa. In Italia, lo dicono i report internazionali, abbiamo il record mondiale di politici che querelano i giornalisti. Al momento abbiamo 670 giornalisti sotto tutela a motivo del lavoro che fanno, 22 sotto scorta, poi ci sono tutta una serie di leggi liberticide in parte già approvate che mirano a richiedere il carcere per chi divulga informazioni circa inchieste e processi, e il mio pensiero va ai team internazionali di giornalismo investigativo, tipo quelli che hanno svelato la grande fuga di denaro verso i paradisi fiscali. Il consorzio Icij vnce il Pulitzer e i premi più prestigiosi, qua in Italia sarebbe sotto attacco di querele con l'obiettivo di distruggerlo".
Come mai ci si lamenta che il giornalismo sta perdendo autorevolezza?
"Intanto perché manca il cosiddetto editore puro, chi ha i mezzi di informazione ha al contempo molti altri interessi con dentro una serie di conflitti e zone d'ombra. Poi c'è il problema dell'informazione omologata. Che arriva a coinvolgere i due principali poli televisivi in Italia, sembra che Rai e Mediaset si siano messe d'accordo per non darsi troppo fastidio a vicenda, con programmi che si assomigliano molto e spostamenti in palinsesto in modo che programmi e conduttori o conduttrici poco controllabili vengano messi in una sorta di riserva indiana, con minori tutele".
L'esplosione delle news online e dei social sembra aver tolto il primato agli altri mezzi di informazione. E' davvero un passo in avanti, una evoluzione?
"Questo è un tema che riguarda soprattutto le giovani generazioni. Non ho niente in contrario ai nuovi media, però il mestiere del giornalista si basa sulla verifica dei dati, dei documenti, delle fonti, su cui si costruisce la reputazione di chi ti informa. I formati online permettono di fare cose molto belle, ma il nuovo mito della velocità e del coinvolgimento spesso mettono da parte le pratiche del buon giornalismo. E quindi trasparenza, controllo, rigore. Che non si possono sostituite con titolacci per fare sensazione e moltiplicare i click. La notizia che conta non è più quella verificata ma quella che l'algoritmo di indicizzazione mette in cima alla lista. E non mi pare un passo in avanti".
Ma le zone critiche riguardano anche il rapporto fra giornalisti e editori.
"Certo, è vero. Io sono uno di quelli che da sempre si batte perché le singole testate stampa dicano chiaramente quali sono gli interessi dei loro proprietari. E' un atto di onestà verso il pubblico e permette di capire il taglio che viene dato a un certo servizio tv o a un titolo di giornale o sul Web".
Molti accusano il giornalismo di parlare un linguaggio specifico che la maggioranza non capisce. Abbiamo perso l'abitudine di spiegarci bene con lettori, spettatori e utenti Web?
"Questa è una situazione complessa che dipende da tanti fattori. Uno è il problema dei giornalisti embedded che seguono le truppe in teatro di guerra e raccontano solo ciò che è loro permesso di vedere. Tutto il resto sparisce. Poi ci sono i ritmi di lavoro, ossessivi, e quando un editore ti chiede di fare quattro o cinque pezzi al giorno, come fai a dare profondità e spessore al tuo lavoro? Tutto si consuma nell'alta velocità. E la forza dei singoli articoli va a perdersi in approssimazioni e superficialità. Questo i lettori e le lettrici lo percepiscono".
Altro male: la moltiplicazione dei talk show tv. Ore e ore di litigi tutti contro tutti in prima serata, ma la gente non capisce niente e ha la sensazione di vedere uno spettacolo costruito apposta così. Sei d'accordo?
"Purtroppo sì. L'opinionismo spinto è uno dei mali della categoria giornalistica, si va in tv senza avere cura di raccontare come si deve i fatti e badando a fare risse-spettacolo di fronte alle telecamere. Così il pubblico si allontana".
Stai presentando un libro che è la storia della tua vita dentro l'informazione e si intitola La scelta. Vivere sotto scorta e sotto pressione, fra continue querele, fino a che punto è sopportabile? Come si resiste?
"Io ho anche ricevuto minacce di morte e per quello mi è stata assegnta una scorta. Credo che il giornalismo d'inchiesta sia fondamentale perché la società esprima il meglio di sé. Sotto la testata del Washington Post c'è la frase: La democrazia muore nell'oscurità. Ed è scritta dal giornale che svelando lo scandalo Watergate ha portato alle dimissioni di un presidente degli Stati Uniti. Come si resiste nel mentre a minacce e pressioni? Eh, ci vuole parecchia resilienza psicofisica, in questo momento fare il giornalista è durissimo, specialmente in Rai".