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Luca Faraone: "Ma quale algoritmo. Vi spiego come nascono i successi fra Sanremo e streaming"

Ancora giovanissimo, suonava già molti strumenti in studio e dal vivo. Poi Londra e ritorno: il lavoro con Rkomi, Shablo, Tony Effe, Rita Ora e altri

Cristiano Sanna Martinidi Cristiano Sanna Martini   
Da sinistra: Luca Faraone (foto concessa), Shablo, Tony Effe, Rkomi (dai loro profili Instagram)
Da sinistra: Luca Faraone (foto concessa), Shablo, Tony Effe, Rkomi (dai loro profili Instagram)

Autore per Tony Effe, Rkomi, Shablo, giusto per tenersi stretti a quanto accaduto all'ultimo Sanremo dove lo abbiamo anche visto dirigere l'orchestra all'Ariston. Ma a 32 anni Luca Faraone è anche altro: partecipa alle produzioni, agli arrangiamenti, e si porta appresso di ritorno in Italia, l'esperienza avuta con nomi importanti all'estero già solo come chitarrista in tour e session man. Niente male per un ragazzo di Assemini, partito giovanissimo dalla Sardegna per arrivare dov'è. Con lui andiamo dietro le quinte di come si costruiscono i successi pop. Sfatando anche certi luoghi comuni, tipo l'onnipresenza dell'algoritmo che ti dice "fai così, umano, e avrai successo in streaming e in classifica".

Luca, riepiloghiamo il tuo percorso fin qui?
"Volentieri. Io sono fondamentalmente un autodidatta, ho poi studiato da privatista per dare il terzo e il quinto anno al Conservatorio e avevo all'epoca 12 anni. A 14 cominciavo a suonare nelle piazze con gruppi di folk, liscio, varietà, qualsiasi cosa ci fosse da fare, a 15 eccomi iniziare in studio e a darmi il battesimo è stato il Sonusville di Siliqua. Lì suonavo tutti gli strumenti e aiutavo a strutturare le produzioni, da quelle di artisti locali fino agli spot pubblicitari. A 19 anni sono partito a Londra, dove non conoscevo nessuno. C'è voluto tempo per infilarmi nell'ambiente musicale e farmi apprezzare. Ho suonato in una miriade di jam session, sia come bassista che come chitarrista".

Una scelta che ha pagato.
"Passavo dal jazz alla fusion al pop, ho pure suonato latin jazz al contrabbasso. La prima svolta è stata nel 2017 quando mi hanno offerto l'audizione per Craig David e sono stato scelto per lavorare in tour, esperienza durata tre anni. A quel punto la strada si faceva in discesa e arrivava un lavoro dopo l'altro. Tour con Rita Ora, Camila Cabello, Emely Sande, ho suonato anche con gli Incognito e con loro, e altri gruppi soul/R&B ho registrato in studio. In parallelo ho cominciato a interessarmi alla produzione con l'uso di computer, e ho lavorato su questo versante con artisti britannici. Più andavo avanti, più l'attività live mi interessava meno di quella della produzione. Poi è arrivato il signor Covid-19 a dare una ulteriore svolta alla mia vita".

Con il ritorno in Italia.
"Sì, sono tornato durante la pandemia, ho ritrovato un amico e lui mi ha fatto conoscere Shablo. Eravamo in studio assieme e abbiamo fatto qualcosa, fino a che lui mi ha detto di tornare. Ed ecco il primo contratto e la proposta di restare a Milano e lavorare a tutto il resto, che ho espanso anche per conto mio. Nascono così le collaborazioni con Madame, Sfera Ebbasta, Achille Lauro e con altri produttori. I concerti? Faccio solo pochi live, li scelgo con cura, soprattutto i concerti evento".

Veniamo all'ultimo Sanremo, e anche alle accuse che pochi autori oggi scrivono pezzi banali e tutti uguali. Partiamo da Tony Effe: di chi è stata l'idea di rifargli look e sound citando le atmosfere alla Califano?
"E' stata una intuizione condivisa in tre di fronte a un caffé: c'eravamo io, il produttore Drillionaire e Davide Petrella, fra gli autori di canzoni pop italiane più quotati al momento. Ci chiedevamo cosa avremmo potuto cucire addosso a Tony Effe in occasione di Sanremo, ed ecco le suggestioni per Califano, una certa romanità, gli anni Sessanta e, come ho aggiunto io, una parte dell'immaginario cinematografico legato al gangsta elegante e un po' 'pestato' dalla vita, come li abbiamo conosciuti nel Padrino. Una volta in studio, ho lavorato alla parte musicale".

Da poco ha fatto discutere una intervista a Enrico Melozzi, il giovane direttore d'orchestra che vediamo inquadrato in tv prima dell'inizio di molti brani di Sanremo, che ha svelato il modo in cui vengono costruiti i successi. Anche con voce critica, infatti ha detto che si cercano sempre gli stessi giri di note, le stesse soluzioni, perché "piacciono" agli algoritmi e permettono di posizionarsi meglio su Spotify e simili e raggiungere il successo. Che ne pensi?
"Che, e lo dico con tutto il rispetto, ognuno dovrebbe parlare di ciò che conosce bene. Rispetto Melozzi, che ho conosciuto, però con tutta la stima che posso avere per lui, devo anche precisare che lui di solito non lavora nel costruire da zero i brani per Sanremo. Non è mai successo che mi venissero imposte le linee guida né che io mi imponessi certi standard, tranne quello della durata. Si sa che se un canzone dura più di tre minuti, o tre e mezzo, è già più difficile che diventi un successo presso il grande pubblico. Poi c'è la forma canzone con la sua struttura: quindi strofe, ritornello, un ponte strumentale o una variazione centrale e quindi la coda. Quello che posso dire è che si sta riducendo la durata delle canzoni, perché la gente consuma in modo rapido e Sanremo tiene conto anche di questo. Una canzone è frutto di creatività ma è pure un prodotto e questo non lo si può ignorare. Se certi artisti hanno un risonanza così ampia in Italia, è perché il lato artistico è sempre legato a quello economico. Ci sono capitali, attorno e dietro all'industria musicale. E ci sono le regole. Se fai un brano, per quanto splendido, che dura sette minuti, le radio non lo passeranno perché nella musica di ampio consumo le persone ascoltano per molto meno tempo. Come avviene per i video e altri contenuti".

Quindi nessun complottone degli algorimi o brani fatti alla catena di montaggio per suonare tutti uguali e provare a fare più soldi?
"No, e direi che questo complottismo musicale non aiuta a vedere la realtà, che è molto più concreta e passa per certi canoni. E' chiaro che se scrivo per un certo artista, devo capire cosa lui o lei vogliono rappresentare con il loro modo di porsi, quel che vogliono raccontare, i loro look, l'immaginario. Di conseguenza la canzone che scrivo per loro deve essere coerente con il progetto complessivo. Che diventa un prodotto per il grande pubblico. Ma prima di tutto si parla con l'artista e si cerca di rispettare la sua idea". 

Ci sono stati anni in cui la musica indipendente, da varie parti d'Italia, ha conquistato fette del mercato. Ma Milano ha preso il dominio delle grande produzione pop nel nostro Paese. E' sempre la città leader o esistono altri centri rivali?
"Se parliamo del pop che ascoltano tutti, della trap, dei brani che dominano streaming, classifiche e Sanremo, Milano è sempre di più il posto leader. Ma negli anni sono cresciute varie realtà locali, che si trovano anche in altre regioni e in cui si sviluppano produzioni più particolari, sul fronte indipendente. Dove la caratterizzazione regionale fa la differenza. Ma quando una piccola produzione cresce, poi diventa mainstream e allora diventa anche di Milano".

Faraone al lavoro in studio (foto concessa)

 

 

 

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