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Filippo Timi ossessionato da Dostoevskij e dalla paura di guardarsi nel monitor durante le riprese

La nuova sfida dell'attore è la serie-evento noir di Sky Original, dove interpreta la parte di un poliziotto

Andrea Giordanodi Andrea Giordano   

Che Filippo Timi sia un istrione d’attore, onnivoro nel fare tutto, e il contrario di tutto (nel senso positivo), è ormai un dato di fatto. Cinema (in Vincere di Marco Bellocchio fu un Mussolini straordinario, tanto per citare uno dei suoi ruoli migliori, così come ne I delitti del BarLume), teatro, doppiaggio, regia, sceneggiatura, libri, composizioni musicali, televisione, radio, scrittura, produce insomma linguaggio e alternative ai linguaggi. Per chi lo conosce e ne ammira le doti di interprete, recitare, scrivere, dirigere, può diventare qualunque cosa: riflessione, esplorazione e ossessione, ricerca, l’esigenza, inconscia, ma non in maniera supponente (lui non lo è mai) di non essere mai uguale ad altri. Perché sa trasformarsi come pochi, e se da un lato è un uomo che per mestiere mente, dall’altro, grazie a questo, sa sempre arrivare alla verità e alla natura di ogni personaggio, brillante, oscuro, introspettivo, drammatico, che porta in scena.

Dostoevskij, la serie-evento noir Sky Original, ideata, scritta e diretta dai fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, altri due gioielli d’autori (gli stessi di Favolacce e de La terra dell’abbastanza, ndr), presentata all’ultima Berlinale nella sezione Berlinale Special, e che vedremo prossimamente al cinema, e poi direttamente (sei episodi) su piattaforma, è la sua nuova sfida. Qui interpreta la parte di un poliziotto, Enzo Vitello, uomo tormentato e dal passato buio, ossessionato com’è da “Dostoevskij”, killer seriale, e che uccide lasciando accanto al corpo delle vittime una lettera con la propria, allucinante, visione del mondo, della vita e dell’oscurità. Una cifra di stile e parole, che lo stesso Vitello sente, e continuamente, risuonare anche al suo interno. Personaggio difficilissimo, dominato e dominante, portato all’estremo.  

Quando per tanti anni lavori a Shakespeare”, ha raccontato, “parte magari il giudizio su Amleto, o Riccardo III. Tutti scardinano i giudizi, sono montagne russe, tra archetipi e funzioni dei personaggi, diventano male e si trasformano. Io mi permetto di affrontare la vita, ma credo che alla fine il vero giudizio è con sé stessi, per questo non mi riguardo al monitor durante le riprese, ho paura. Bisogna allora affidarsi allo sguardo di altri, senza essere in balia di giudizi esterni, bisogna ascoltarsi, avere il coraggio di andare controtendenza e di spogliarsi da una certa idea”. 

Sulle spalle tante cose e sfumature insomma. “Fabio e Damiano”, dice, “non ti danno indicazioni quando mandano scene, non raccontano nulla, ma questo è super interessante, ed è così ho attivato la modalità detective. Ciò ha creato un bellissimo gioco, ho dovuto capire che il mio personaggio era talmente profondo, ma anche molto fragile, quindi secondo me è lì che ci siamo agganciati. Penso a tutti i miei riferimenti, a Carmelo Bene, che sostiene che l’attore è la femminilità portata a coscienza, ed è vero. L’equilibrio tra le due parti, quella forte e quella morbida, è fondamentale, e loro due ce l’hanno. Ho iniziato a studiare, li volevo incontrare, non importava un cazzo che ruolo sarebbe stato, qui mi sono innamorato della loro scrittura, mi ha steso. Ho goduto ogni istante, dando tutto me stesso”. 

Andrea Giordanodi Andrea Giordano   
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