Claudio Santamaria: "Come sono diventato una persona terribile, che ho dovuto imparare ad amare"

L'attore, che ritroveremo a marzo nel film "Educazione fisica", si mette a nudo raccontando un po' di sé e del significato del suo lavoro

TiscaliNews

I grandi attori non hanno per forza bisogno di troppi spazi, movimenti, sanno ugualmente districarsi in maniera libera, superando i confini imposti dalle storie, dai testi, anzi, costruiscono altre aperture, punti di vita, li esplorano e ti ci portano all’interno. Non importa se siano personaggi amabili o detestabili, in ogni caso ti rimangono impressi, addosso, ed il merito è anche di chi se ne fa carico. Claudio Santamaria va proprio in questa direzione di attori e artisti. Quarantotto anni, oltre 25 di carriera, ha attraversato qualunque cosa, riuscendo a districarsi agevolmente: dalla commedia al dramma, dal doppiaggio al teatro, tra il mondo di Andrea Pazienza (nei panni di uno dei suoi personaggi, Pentothal) e il videoclip, per l’amico Achille Lauro, collaborando con autori come Muccino (L’ultimo bacio, Gli anni più belli), Ermanno Olmi (Torneranno i prati), Moretti, Daniele Vicari, in quel gioiello d’impegno com’è Diaz – Don't Clean Up This Blood, o Michele Placido, nei panni del Dandi di Romanzo criminaleAlcuni esempi di un portavoce generazionale, trasversale, desideroso di inseguire la verità, bravo a evocare il passato (fu un superbo Rino Gaetano) e a svelarsi per quello che è, senza timore, ad abbracciare anche ruoli inediti per lui, sia che siano supereroi, come in Lo chiamavano Jeeg Robot, o impersonando uomini lupo, come in Freaks Out.  

Il nuovo lavoro è "Educazione fisica": dal 16 marzo al cinema

Quando lo incontriamo, all’ultima edizione di Sguardi Altrove Film Festival di Milano, dedicato alla produzione e cinema al femminile, è lì per presentare il suo nuovo lavoro, Educazione fisica (dal 16 marzo in sala, distribuito da 01) l’ottimo film diretto da Stefano Cipani, tratto dall’opera teatrale, La palestra, di Giorgio Scianna e scritto in sceneggiatura dai Fratelli D’Innocenzo. Un ritratto articolato, denso, immersivo, in cui si “muove” insieme a Giovanna Mezzogiorno, Donatella Finocchiaro, Sergio Rubini, facendoci entrare in una storia incredibile, apparentemente claustrofobica, ma ben ancora al contemporaneo e all’attualità. Sono genitori, convocati da una preside (interpretata dalla stessa Mezzogiorno) per qualcosa di grave scoperto a carico dei loro figli. Prima e durante il caos tutto cambia. Ne nasce una sorta di processo alle intenzioni, in cui si intrecciano spunti, tematiche, sulla genitorialità, sulla difesa ad oltranza, sui limiti da poter o meno superare, riguardo ad una identità da proteggere, sulle responsabilità e i confini. Ed è lì che Santamaria, che qui interpreta un padre “insopportabile”, si scopre ulteriormente.  

Qui sono una persona terribile, spregevole, ma come attore dovevo amarlo

«Nell’arte, quando hai dei limiti, hai molte più possibilità, ostacoli da superare», ci racconta. Avevamo tantissimo testo, cambi di marcia, velocità e di temperatura. Alla fine diventa un vero inferno, con dei lupi. Qui sono una persona terribile, spregevole, ma come attore dovevo amarlo. Quello che mi ha permesso però di interpretarlo è il tema: c’è di mezzo l’educazione, la famiglia, l’autorità, una tematica come lo stupro, i casi di stupro e come vengono rigirati ogni volta, come si cerca di prendere la vittima e trasformarla in complice, che per me è una cosa davvero atroce, che dobbiamo insegnare ai nostri ragazzi, ai nostri figli, che questo è sbagliato e che non si fa mai. Questi sono genitori che cercano in ogni modo di proteggere i propri figli, non capendo i danni che invece stanno provocando, gli stanno dando la possibilità di redimersi attraverso una punizione, un percorso di riconnessione con qualcosa di umano dentro di loro. Questa palestra diventa così lo specchio della società, deformante, mostruosa, e di quello che c’è fuori. Sembrano simpatici, ben vestiti, buoni, ma poi sono feroci, spietati, egocentrici, e proteggono loro stessi».  

La recitazione come una palestra di vita, nella quale non si smette di imparare

«In ogni film, lavoro scopro un pezzettino di me», ci dice Santamaria. «Fino a che punto posso spingermi, posso dilatare il tempo all’interno di una scena. Sono sempre stato strasevero con me stesso, ho sempre cercato di colmare le mie lacune, i miei buchi, mi sono sempre impegnato moltissimo, perché se c’è qualche punto oscuro io lo devo illuminare. Credo che questa sia un po’ la nostra funzione come artisti, di accendere nella testa di un ragazzo, o adulto, che pensava già di sapere tutto e che invece, attraverso di te, scopre qualcosa. Col nostro lavoro, siamo rappresentanti della società e abbiamo un dovere, civile e morale, a volte educativo, anche attraverso le scelte che facciamo».