Fan in delirio per Di Caprio: "Un'esperienza che non dimenticherà mai". Scorsese: "Il mio grande azzardo"
Killers of the Flower Moon conquista la Croisette. Il regista e i protagonisti attesissimi sul red carpet per la prima del nuovo capolavoro, presentato fuori concorso
Ci sono momenti, come in questo caso, in cui possiamo scomodare una parola tanto usata (spesso a sproposito), capolavoro. Accade quando l’arte cinematografica non ha solo la forza di rinnovarsi, ma fa leva sulla magia delle immagini, sulle visioni, su clic emotivi, su evocazioni, capaci, in certi casi, di trascinarci in un vortice, anche silenzioso, narrativo e di rara bellezza. Accade quando dietro la macchina c’è un nome come Martin Scorsese che, a oltre a 80 anni, mette in scena la tragedia americana, dando il giusto tributo ad un popolo per anni ingannato, spogliando un paese, l’America, dalle mani sporche di sangue e petrolio.La pioggia altalenante che invade da giorni la Croisette e il Festival di Cannes per un attimo si ferma, quasi da copione. È il segnale, una sorta di magia, ma reale, per omaggiare i protagonisti che di lì poco arriveranno travolti dai fotografi. Il red carpet perfetto: Scorsese, da un lato, e le sue gemme preferite, Leonardo DiCaprio e Robert De Niro, gli attori feticcio, diretti rispettivamente sei e nove volte, che ora tornano a recitare a distanza di 27 anni (il film era La stanza di Marvin), per la prima volta diretti dal loro mentore.
Serviva il progetto giusto, la sfida arriva nell’adattare (insieme a Eric Roth, lo stesso sceneggiatore di Forrest Gump) il libro di David Grann, “Gli assassini della terra rossa”, in inglese appunto Killers of the Flower Moon, prodotto da Apple Studios, e che in Italia vedremo dal 19 ottobre in sala, distribuito da 01 Distribution, e poco dopo su Apple+. Si capisce che non è una proiezione (peraltro l’unica riservata agli accreditati) come le altre: la fila è immensa, tra ombrelli aperti e una sensazione di adrenalina buona, che anticipa i grandi eventi. Nella Sala Debussy ogni cosa è pronta, si rimarrà seduti per tre ore e mezza, sui titoli d’apertura i primi applausi, poi scatta un rigoroso silenzio,nessuno guarda l’orologio, si è come in una sorta di rituale mistico riservato a pochi, questo dura fino alla chicca finale, geniale. E ciò che va in scena non tradisce le aspettative, nove minuti di applausi alla première di ieri. Sembra una rinascita, ed invece è la conferma di un autore leggendario, di una storia imperdibile e senza tempo.
Parliamo di un thriller western, in grado di sconfinare gradualmente in un ritratto arido, cinico, noir, brutale, a tratti grottesco e gangster movie, ispirato da una vera storia accaduta negli anni ‘20 negli Stati Uniti, in cui alcuni appartenenti alla Nazione Osage, popolo deportato in Oklahoma alla fine dell’Ottocento, nativi americani, vennero assassinati in circostanze misteriose. Uomini e donne (soprattutto), appartenenti alla tribù Osage, che da un momento all’altro si arricchirono grazie al petrolio, ereditando una fortuna, ma che nello stesso tempo dovettero confrontarsi con l’avidità e la sete di potere dei bianchi, intenti a sottrargli terre, risorse, futuro. Vittime e carnefici di un sistema brutale, di logiche capitalistiche, fatto di bugie, omicidi seriali, genocidi, speculazioni, razzismo, ambizione, corruzione, in cui DiCaprio e De Niro (“chiamami pure Re” dice il secondo al primo) sono i rappresentanti principali di questa lucida follia e disumanità. “Il film”, racconta Scorsese, “è frutto di combinazioni, anni di lavoro, girato nel periodo della Pandemia, tra mascherine e vaccini. Ma tutto nasce in primis dal libro straordinario scritto da Grann. La missione era rispettare quei valori e ideali. “La mia generazione”, ha detto Leonardo DiCaprio, “è cresciuta ispirandosi a maestri come Scorsese, alla sua perseveranza, e ad attori come De Niro, che di fatto hanno influenzato e ispirato l’industria cinematografica toccando livelli incredibili. Questa è una delle esperienza che non dimenticherò mai”.
Di Caprio interpreta Ernest Burkhart, un uomo tornato dalla Prima Guerra Mondiale, desideroso di rifarsi un’esistenza in Oklahoma, eppure apparentemente fuori luogo, “stupido”, docile, manovrabile. Non sa infatti a cosa andrà incontro. Ottenendo un lavoro presso lo zio, William Hale (De Niro), lo sceriffo di Osage County, entra inconsapevole così nel circuito, si innamora (e si sposa) con una donna nativa, Mollie (la bravissima Lily Gladstone), lo fanno tutti, senza lo scopo di arricchirsi, ma semplicemente per una stabilità ritrovata, perché la ama. Nel frattempo quell’apparente armonia viene sconvolta dalle perdite delle sorelle di lei, della madre, di strani accadimenti e accurate manovre, di lupi e sciacalli maschili, pronti a tutto, Ernest scopre il marcio dietro ad ogni gesto, ne diventa complice, vittima lui stesso, artefice. Ne nasce un caso nazionale in cui all’epoca intervenne l’F.B.I., dando il via ad un’indagine voluta direttamente dal responsabile dell'agenzia, J. Edgar Hoover. Il resto lo lasciamo a quando la pellicola arriverà nelle sale.
“Non ho capito bene il mio personaggio, ma ho cercato di fare del mio meglio”, conclude De Niro. “Viviamo ogni giorno la banalità del male e di un sistema razzista, lo abbiamo percepito in maniera profonda assistendo all’omicidio di George Floyd. Non voglio parlare di politica, ma ancora mi chiedo come ci siano persone in grado di sostenere un personaggio come Trump, è qualcosa di insensato”. Una cosa è certo, la nuova pellicola di Scorsese (sicuro protagonista agli Oscar 2024) è anche un grande romanzo visivo, da vivere, sfogliare, e ascoltare attentamente, fino all’ultima sequenza, in cui ci guida, ci invita a pensare, a riflettere, ci fa emozionare, ci fa capire quanto il cinema possa essere lo strumento per veicolare le proprie esperienze del passato, portandole nell’oggi. Scorsese lo sa, è uno dei pochi Maestri viventi ad avere la ricetta giusta per poterci insegnarci qualcosa in più. E questo, alla fine, non ha mai prezzo.