[L'intervista] "Tutti amano Trinità ma adesso basta dire bugie su mio padre"
Tutti i retroscena della realizzazione del capolavoro western comico con Spencer e Hill. Parla Marco Tullio Barboni, figlio del regista E.B. Clucher

Più di tre miliardi di lire di incasso nel solo anno della prima uscita al cinema. E da allora non si è più fermato. Lo chiamavano Trinità è uno dei film italiani più amati dal grande pubblico e, come già abbiamo scritto e analizzato qui, ogni sua replica è un successo assicurato. Ma a quasi 50 anni dal debutto nelle sale (1970) e mentre si preparano le celebrazioni del caso, a voler spazzare via tutta una serie di imprecisioni e falsità che circondano la leggenda del film con Bud Spencer e Terence Hill è Marco Tullio Barboni. Figlio di Enzo Barboni, in arte E.B. Clucher, regista di quel film, del sequel Continuavano a chiamarlo Trinità e di altri titoli fortunati con protagonista la coppia Spencer-Hill. "Voglio chiarire una serie di dati e fatti sbagliati che da sempre seguono quel western, ne va della reputazione di mio padre" ci spiega, lui che fu aiuto regista proprio sul set del film. E che ancora oggi lavora come regista, scrittore e sceneggiatore. Quello che segue è un racconto straordinario, perché contiene una serie di retroscena spesso del tutto inediti.
Barboni, cominciamo a far chiarezza dall'origine del progetto Trinità di cui lei fu secondo aiuto regista sul set diretto da suo padre Enzo.
"Sì, avevo 18 anni, terminavo il liceo e mio padre aveva diretto il suo film d'esordio Ciakmull - L'uomo della vendetta, prodotto da Manolo Bolognini, fratello del regista Mauro, che resterà sempre un suo estimatore. Papà Enzo aveva già lavorato con lui come direttore della fotografia, in Texas Addio e Django, entrambi con Franco Nero. Arrivò così la proposta di girare un piccolo western cosiddetto 'di recupero', venivano definiti in questo modo i film che utilizzavano dei set già pronti e usati da produzioni precedenti. Eccoci a Trinità: mio padre era reduce dal Django diretto da Corbucci che aveva come aiuto regista Ruggero Deodato. Quel film era qualcosa di unico ed esagerato, papà aveva lavorato con Zimmermann, regista di Mezzogiorno di fuoco, e amava molto il western classico. Per dirne una: in Django si contavano più di 300 morti, nella famosa e reale sfida all'Ok Corral morirono cinque persone e la notizia restò per mesi sui giornali dell'epoca. Il punto è che lo spaghetti western era arrivato a un numero di morti e di ferocia irreale. Si era creato un cliché e mio padre volle ribaltarlo".
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"Lo chiamavano Trinità": immagini del film
Aveva dunque ragione Sam Peckinpah, regista del Mucchio selvaggio, quando parlano dei film di Sergio Leone disse: "Mi piaccono ma hanno poco a che fare con il realismo e la durezza del West"?
"Sì. Intendiamoci: Sergio Leone, che era amico di mio padre, è stato un maestro e nessuno mette in dubbio il valore dei suoi film. Però Peckinpah dice il vero. Lo spaghetti western era un'altra cosa. Ne approfitto per smentire subito una bufala storica: quando i film diretti da mio padre cominciarono ad avere successo, certa stampa prese a pompare la presunta rivalità fra i due. Lo dico chiaramente: quella rivalità non c'è mai stata".
Torniamo alla nascita della saga di Trinità: Enzo Barboni voleva ribaltare i cliché del western all'italiana, si diceva.
"Esatto. Pensò da subito a un western brillante e a Terence Hill con cui aveva lavorato in Preparati la bara e Dio perdona io no. Ribaltare i cliché significò cominciare proprio dall'aspetto del protagonista: Terence veniva da ruoli cupi e truculenti da pistolero vestito di nero, sempre ammusonito e con i bellissimi occhi azzurri esaltati dall'uso di un riflettore chiamato dinghi dinghi, cioé una lama di luce che esaltava lo sguardo durante le riprese. In Trinità lo ritroviamo col cappello buttato all'indietro, tutto stracciato, trainato dal cavallo mentre sta su una sorta di branda rudimentale. Tutto il contrario di quel che il pubblico si aspettava. La stessa musica di Franco Micalizzi era diversa da quella scritta da Morricone per Leone, era ironica, allegra. Ma questo approccio rappresentò un problema: i produttori non erano convinti di fare il film, temevano che non fosse capito. Invece andò alla grande".
Quando arrivò il momento in cui Bud Spencer fu affiancato a Terence Hill sul set di Lo chiamavano Trinità?
"Inizialmente mio padre aveva pensato a un duo diverso con cui aveva già lavorato: George Eastman, alias Luigi Montefiori, grande e grosso, e Peter Martell, cioè Pietro Martellanza. Ma dopo una serie di porte chiuse dai produttori, quando incontrò Italo Zingarelli che gli disse sì, seppe anche che lui aveva sotto contratto Bud Spencer e Terence Hill. A quel punto la realizzazione del film poteva cominciare".
Facciamo il punto: stiamo smentendo quanto riportò nel 1985 un supplemento dell'Unità, in cui si legge che Sergio Leone, di fronte al grande successo di Lo chiamavano Trinità, disse che apprezzava il film ma era preoccupato che la deviazione comica del western all'italiana finisse per danneggiare l'intero genere. Articolo in cui si scrive che Leone avrebbe raccontato quanto gli riferì Terence Hill, e cioè che Barboni non intendeva fare una commedia e che restò anche lui spiazzato dalle reazioni del pubblico.
"Come ho già chiarito, Trinità fu pensato da Enzo Barboni-E.B. Clucher esattamente come lo vedete al cinema o in tv. Brillante, comico. Dunque basta bugie su mio padre e sul suo modo di lavorare. Far passare la versione secondo cui volesse girare una pellicola drammatica e si fosse ritovato con un film comico, gli fa fare la figura dello stupido. Tra l'altro Terence ha smentito più volte quanto riportato in quell'articolo. Inoltre: all'epoca il girato veniva premontato, i giornalieri sviluppati da Technicolor in via Tiburtina venivano poi visti da mio padre con i collboratori del set e ogni volta erano grandi risate. Lo sapevano eccome quel che stavano facendo. Tanto che Zingarelli, diventato poi presidente dei produttori italiani, vista la riuscita suggerì di calcare ulteriormente la mano sulla parodia e la comicità. Chi ha girato scene diventate mitiche come 'Emiliano non tradisce' e quella con gli schiaffoni dati al bandito messicano Mescal, sa benissimo cosa vuole realizzare. Altra fesseria è la storia delle riprese effettuate in Almeria, la parte della Spagna in cui aveva girato Leone".
Non andò così?
"No, mai stati lì. Trinità è stato girato tutto nei dintorni di Roma, controllando che la distanza dalla Capitale non fosse eccessiva per non far crescere i costi di troupe e cast. La famosa sequenza delle due ragazze bionde e Terence Hill in mezzo alle cascate è girata nel parco di Monte Gelato, vicino a Roma. Quando si parla di Campo Imperatore, in Abruzzo, bisogna riferirsi al secondo film. Il resto del primo Trinità, tipo la sequenza in cui Terence Hill mangia quell'enorme pentola di fagioli, è stato girato nella zona della Magliana, sull'autostrada che porta all'aeroporto, in una cava di tufo su cui era stata messa una vacca perché in quel modo le comparse sul set guardavano verso l'animale e non si distraevano verso le piste di volo vicine. Le scene ambientate nel campo dei mormoni sono state realizzate a Camerata Nuova, tra il Lazio e l'Abruzzo".
Come è stato per il giovane assistente alla regia Marco Tullio Barboni avere a che fare sul set con Bud Spencer e Terence Hill?
"Erano due grandi professionisti, molto disponibili e perfetti nei rapporti tra loro due. Venivano entrambi da esperienze di buon successo e stavano cavalcando insieme l'onda della grande celebrità. Con i due film su Trinità sono diventati icone europee, ci sono ancora Paesi, penso all'Est Europa, dove Bud e Terence sono autentici eroi popolari. Il film ha avuto buona accoglienza anche negli Usa dove è considerato un cult".
Cosa ricorda dell'esordio del film nei cinema nel 1970?
"Italo Zingarelli, il produttore, era di Lugo di Romagna, ci tenne a debuttare in quella Regione e dunque Lo chiamavano Trinità esordì nelle sale a Bologna, Modena, Forlì. Il successo fu tale che la gente non se ne andava più, se ricordate allora il biglietto permetteva di vedere anche gli spettacoli successivi. Si creava una calca incredibile nei cinema".
Rapporti sempre sereni e di stima, dunque, fra suo padre Enzo Barboni in arte E.B. Clucher e Sergio Leone?
"Sì, posso dirlo a voce alta. Si conoscevano già dalla lavorazione di Ben Hur e Storia di una monaca a cui collaborarono in ruoli diversi. Da bambino andavo con la mia famiglia a casa dei Leone con cui c'era vera amicizia. La rivalità veniva pompata dai media, specie nel 1971, quando uscirono a poca distanza l'uno dall'altro Continuavano a chiamarlo Trinità e Giù la testa. Ricordo che andai a vedere al cine Barberini il film di Leone con mio padre. Era bellissimo, con il consueto splendore formale e un James Coburn che io letteralmente adoravo. Rod Steiger era monumentale, c'erano la fotografia di Delli Colli, le musiche di Morricone con quel flashback della scena del tradimento che è un capolavoro. Però la gente non riempiva le sale come accadeva con Trinità. Non dico che la bellezza di un film stia nel successo al botteghino, ci mancherebbe, se no Pozzetto sarebbe meglio di Kubrick, però quello è un dato di fatto dell'epoca".
Nel 2020 saranno cinquant'anni dall'uscita di Lo chiamavano Trinità. Che accadrà?
"Sono previste proiezioni, celebrazioni e omaggi un po' dappertutto. Ne saprete di più in seguito, ma già adesso ricevo continuamente inviti per presenziare ad eventi su Trinità. Per dirne una, sono reduce dall'invito dell'ambasciata d'Ungheria a Roma dove hanno organizzato un'intera giornata in onore a Bud Spencer e ai film di cui è stato protagonista".
