La Fede e i suoi misteri: Bellocchio si candida alla Palma e Fabrizio Gifuni stavolta è sublime

Talvolta i grandi attori non vanno forzatamente esplorati, vanno semmai capiti, ammirati, ed è grazie a loro se il cinema, il teatro, l’arte in generale, sa essere migliore, accessibile

Talvolta i grandi attori non vanno forzatamente esplorati, vanno semmai capiti, ammirati, ed è grazie a loro se il cinema, il teatro, l’arte in generale, sa essere migliore, accessibile. Fabrizio Gifuni fa parte di questa cerchia di nomi, perché riesce a dare voce a più voci, calibrando stile, talento, forza, impeto, grazia. Fresco vincitore del David di Donatello come miglior attore protagonista per Esterno Notte, dove è stato un Aldo Moro monumentale, adesso torna a essere ancora diretto (la terza volta) da Marco Bellocchio, in Rapito, primo film italiano passato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, e che uscirà in sala dal 25 maggio, distribuito da 01 Distribution, liberamente ispirato a “Il caso Mortara” scritto da Daniele Scalise, edito per Mondadori.

La storia di Edgardo Mortara

Un film rigoroso, di grande impatto scenico, e che ci riporta indietro nel 1858 ai tempi di Papa IX (interpretato da un grandioso Paolo Pierobon), che scava in uno dei casi che allora furono tra i più intricati tra Stato e Chiesa, ovvero il rapimento dal quartiere ebraico di Bologna di un bambino di appena sette anni, Edgardo Mortara, sottratto ali genitori (interpretati da Barbara Ronchi e Fausto Russo Alesi) per volontà del Sant’Uffizio e di Padre Feletti (lo stesso Gifuni) e della legge del pontefice, in quanto ritenuto segretamente battezzato come cristiano. Ne nascerà una battaglia politica, morale, seppur nel bambino crescerà di fatto la convinzione riguardo fede cattolica e la visione di qualcosa di nuovo.

Un progetto che, anni fa, aveva interessato addirittura Steven Spielberg, per qualche tempo sembrava fosse lui a dirigerlo. Poi la rinuncia. Da qui la passione e l’impegno di un Maestro come Bellocchio, votato dagli inizi a ricostruire i tasselli delle nostre memorie, riabbracciando nel medesimo istante temi cari, la religione, la famiglia, i misteri (dubbi) irrisolti della nostra storia. I colleghi stranieri non parlano d’altro, c’è attenzione, curiosità: Bellocchio ha vinto sì la Palma d’Oro alla carriera, ma non è mai riuscito a imporsi nella gara. Forse potrebbe essere l’anno giusto, lo vedremo tra qualche giorno. Ed è proprio in questo nuovo affresco che Fabrizio Gifuni lascia ancora il segno, proiettandosi in un ruolo contraddittorio, fermo, severo, ma che si inserisce perfettamente nella gallery dei suoi personaggi indimenticabili.

D’altronde la sua carriera trentennale parla da sola. C’è il grande e piccolo schermo, le collaborazioni con gli autori migliori, oltre a Bellocchio, Marco Tullio Giordana, Gianni Amelio, Giuseppe Bertolucci, l’amore sconfinato per il palcoscenico, la sua capacità di impersonare chiunque, dandogli il tono e il registro giusto. Quando lo incontriamo ha la disponibilità di sempre, ma anche la consapevolezza che ogni parola, pensiero, ragionamento, abbia necessità del proprio tempo. Perché la recitazione, per lui, è stata davvero un grande viaggio di insegnamento “Anno dopo anno sono una persona diversa da quella che ero prima, da tanti punti di vista, ci racconta.

Intanto per l’incontro che ogni volta ho con un gesto creativo, con un racconto, con una storia, il confronto con un personaggio, il confronto, quando capita, con grandi artisti come Marco Bellocchio, che è qualcosa che cambia anche il tuo sguardo sulla realtà. Il mio è un lavoro bellissimo, di cui sono innamorato e che continuo a fare da 30 anni con lo stesso entusiasmo come quando ho iniziato, perché è una scuola di libertà, se si sceglie la strada della libertà. È un lavoro che ti apre a tante possibilità. C’è poi un aspetto che riguarda gli attori, gli interpreti, legato al meccanismo della memoria, siamo gli ultimi depositari, soprattutto in teatro, dell’arte della memoria, gli ultimi che imparano a memoria dei testi in questo rapporto non meccanico, ma che cambia. Le parole, che tu hai imparato, ti attraversano e modificano il tuo corpo, molto più di quanto non si è disposti a credere”.

Ma se da un lato Gifuni è ormai uno dei volti universalmente più noti e apprezzati, dall’altro è invece nota la sua riservatezza riguardo alla propria privacy, il matrimonio (con l’attrice Sonia Bergamasco, ndr), i figli.

“Bisogna lasciare la possibilità allo spettatore di essere libero di vedere gli interpreti senza sapere troppo della loro vita”, dice. “Viviamo in un’epoca in cui dobbiamo sapere tutto di tutti, cosa mangiano, dove vanno in vacanza, se credono o non credono, per quale squadra tifano, qual è il loro partito. Tutto questo leva un po’ di fascino e mistero”.

Com’è il suo rapporto con la fede?, proviamo a chiedergli. “Ho un rapporto. Credo che questo mondo non finisca qui. Penso che l’esperienza sensibile, che appartiene a questa vita, sia un tragitto, un percorso, che si lega ad un’idea di trascendente, che non necessariamente appartiene ad una religione o ad un credo”.