Che meraviglia la “Nostalgia” di Martone. Ma Favino a sorpresa: "Lo shock di scoprirmi troppo ingombrante"
"Non so che attore sono diventato. Quello che ti cambia sono però gli incontri"
Il destino gioca la sua parte e cambia le carte, o quanto meno prova a farlo, in una maniera inaspettata, dolorosa, talvolta liberatoria, talvolta lasciandoti credere di aver ritrovato il controllo su ogni cosa e situazione. Ma non è sempre così.
È una forma di nostalgia esistenziale, intrisa di tanti desideri, seppur non tutti riescano a realizzarsi. Mario Martone, un maestro assoluto nel dipingere l’anima dei personaggi messi in scena, e i luoghi nei quali gira (ultimamente, da Capri-Revolution, Il sindaco del Rione Sanità all’acclamato Qui rido io), scorci, come (ancora) nel Rione Sanità di Napoli, adattando adesso il romanzo di Ermanno Rea, Nostalgia appunto, con un superlativo Pierfrancesco Favino.
Un incontro-scontro tra lui e una città materna, in un quartiere labirintico, in cui il protagonista, Felice Lasco, torna dopo 40 anni vissuti in Egitto, rivedendo la madre ormai anziana, lasciata a 15 anni, fuggendo forzatamente da una situazione che fino ad allora lo ha tormentato, e che ora si ripropone nella mente, tormentandolo. Ricordi in cui, da ragazzo, si divideva nelle stradine, in sella alla moto, divisi con il miglior amico di un tempo, Oreste (interpretato rispettivamente in epoche diverse da Artem e Tommaso Ragno), diventato il boss di questo micro universo.
Qualcosa di importante li legava, qualcosa ancora li lega: il segreto, la morte, l’omicidio (imprevisto) da parte del secondo di un usuraio, mai risolto e denunciato. Così, il ritorno nel cuore della città lo proietta allora nella nuova realtà, riannondando le radici (mai perdute) e una lingua apparentemente dimenticata, avvolto com’era (ed è) da uno strano sentimento di spaesamento, di rimorso, necessario per provare a fare i conti, chiuderli definitivamente, ripartendo da lì.
Nostalgia (in sala dal 25 maggio, distribuito da Medusa Film), passato in concorso al Festival di Cannes, dove ha ricevuto nove minuti di applausi, è a tutti gli effetti una di quelle esperienze viscerali ed immersive capaci di cambiarti, e non solo nel guardare l’orizzonte di ogni personaggio, ma anche e soprattutto l’ambiente, e ciò che li circonda.
Una visione illuminante, intensa, tra il reale e il simbolico, in cui quotidianamente, a partire dal prete-coraggio della parrocchia (l’ottimo Francesco Di Leva), si combatte, si lotta per guardare altrove e non girare la testa, ma si ricerca oltremodo anche una forma d’armonia, di equilibrio negato, di pacificazione.
"Di questa storia mi interessava molto anche l’spetto mitologico, universale, che potesse parlare a tutti" ci racconta il regista, Mario Martone. "erché le cose possono andare in un modo o nell’altro, sono le scelte che fai, come ti rapporti con te stesso: il protagonista decide, o viene deciso, rapportandosi col passato e portandolo fino in fondo".
In tutto il percorso narrativo brilla ulteriormente Pierfrancesco Favino, tra i favoriti a questo punto del concorso.
"Non so che attore sono diventato. Quello che ti cambia sono però gli incontri", ci dice.
"Oggi inizio a sentire la difficoltà che io possa essere più ingombrante dei personaggi che faccio. Se dovesse avvenire sarebbe un grande shock per me: vorrei essere sempre meno Favino e più le storie che racconto, e non ingombrare".