Cani e redenzione: ecco il "Dogman" di Luc Besson e perché è un'esperienza da vivere
Un film che parla di violenza, radici tagliate, ma anche di redenzione, e che parte da un incipit preciso nei titoli di testa, “Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”
Cosa potrebbe succedere ad un individuo, figuriamoci un ragazzino, se fosse rinchiuso anni in una gabbia con dei cani da combattimento. Ne diventerebbe una guida, e da loro riceverebbe amore (quello negato da sempre) e futuro. Luc Besson, prendendo spunto da un articolo letto qualche anno fa, trasporta magnificamente, attraverso scrittura e immaginazione, una delle storie più intense, crude e belle viste finora alla Mostra del Cinema di Venezia. Una favola nera, nel quale splende però (in età adulta) la luce del suo protagonista, Caleb Landry Jones, che in questo caso ha regalato una delle performance del concorso.
Un texano dagli occhi di ghiaccio e inquieti, capace di attrarre l'attenzione da anni e di tanti autori. Caleb Landry Jones sembra il tipico bello e dannato del cinema americano, ma invece porta con sé un'anima trasversale, se volete pure maledetta, eppure da artista navigato, nonostante i soli 33 anni. Ha lavorato con i migliori: dai fratelli Coen (Non è un paese per vecchi) a Jordan Peele (Get Out), da David Fincher, a Jim Jarmusch. Nel 2021 l'exploit, in una dei ruoli dell'anno, con Nitram, premiato a Cannes come miglior attore, ispirato alla vita Martin Bryant, l'autore del massacro di Port Arthur nel 1996. Qui arriva ad un'altra prova maiuscola, indimenticabile, in cui cerca riscatto (e salvezza) grazie all'amore per i cani, che qui diventano il suo “esercito fedele”, in quella che è una pellicola dove aleggiano gli echi di un Joker meno folle e più empatico (con chi se merita), da noir dirompente, e nella quale cambia forma e identità, entrando nel mondo delle drag queen, recitando addirittura nei panni di Edith Piaf, Marlene Dietrich e Marilyn Monroe.
Un film che parla di violenza, radici tagliate, ma anche di redenzione, e che parte da un incipit preciso nei titoli di testa, “Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”. I cani, per il protagonista, Douglas Murow, reso invalido da una pallottola partita dal fucile del padre, l’aguzzino che da bambino lo rinchiuse, diventano la salvezza. Sembra limitarsi apparentemente nelle movenze, non nell’umore. Diventa istrionico, in parte vendicativo, ma sempre controllato, generoso, solo con quei quadrupedi (li chiama figli) che in lui hanno trovato una vera famiglia. Cerca così altre strade per dimenticare il dolore, fin dall’inizio si confida apertamente con una psichiatra, a cui racconta la sua storia attraverso dei flashback. “I cani”, pronuncia, “hanno tutti i pregi degli uomini, ma non i loro difetti. E non mentono mai se si parla d’amore”.
Il resto di Dogman è una di quelle esperienze da vivere (lo vedremo in sala dal 12 ottobre, distribuito da Lucky Red), che in alcuni momenti possono anche rimanere indigesti, il cinema per fortuna non deve essere sempre e comunque consolatorio. È l’energia di un uomo e di una storia, che sa parlare di umanità e disumanità allo stesso modo, di dolore e gioia, con Luc Besson che torna finalmente ai livelli di Léon, dando una sferzata ad una carriera che sembrava in crisi.