Alberto Malanchino: “Il successo con "Doc", i pregiudizi nel cinema e i no che aiutano le carriere"

“Le carriere si basano anche sui no” dice l'attore che ritroviamo come voce del personaggio principale di "Lightyear – La vera storia di Buzz"

“Verso l’infinito e oltre.”

La battuta celeberrima di Buzz Lighyear, pronunciata nell’ultimo "Lightyear – La vera storia di Buzz", in sala da giugno, non rimane sospesa a quel mondo fatto di animazione e magia, per Alberto Boubakar Malanchino, 30 anni (la nuova voce del personaggio principale) sembra davvero essere diventata qualcosa di reale e concreto.

Un attore dalla visione trasversale, ampia, che anche a telecamere spente, ospite della quinta edizione del Sorridendo Film Festival ideato-diretto da Mary Calvi, sa sempre rimanere se stesso, semplice, nonostante la popolarità arrivata grazie alla serie medical drama Doc – Nelle tue mani, che di fatto gli ha permesso il grande salto.

«L’incontro col personaggio di Gabriel Kidane è stato fondamentale, il primo passo importante della carriera» racconta. «Gli sarò eternamente grato, mi ha dato la possibilità di farmi conoscere, cosa che a me mancava, venendo dal teatro, e stavo iniziando a fare la classica gavetta. Siamo anche tanto differenti, forse ci accomuna il fatto di essere persone riflessive e sensibili, rispetto a lui io sono molto più aperto, ma tanto riservato nella vita privata, ci tengo a proteggerla, è sano per la mia testa che rimanga solo mia, e non diventi di dominio pubblico».

Cinema da un lato (con l’ottimo Easy Living), ma tanto teatro dall’altra, formandosi alla Civica Scuola di TeatroPa olo Grassi di Milano. Un linguaggio che Malanchino ha portato avanti (e continua) tramite spettacoli (The boys in the band, ad esempio, ndr) o monologhi intensi, come Verso Sankara, in cui narrava riguardo al Burkina Faso, una seconda casa (la madre è originaria di lì, ndr), un paese atipico, simbolico, ponendo una riflessione di fondo riguardo a certe condizioni socio-culturali, politiche, economiche. Il trampolino speciale nel determinare il suo proprio percorso graduale, calibrato, lo stesso dove è riuscito a farsi dirigere da nomi quali Moni Ovadia, attraversando i progetti più diversi, anche nei panni di doppiatore. «Toy Story è stato il primo film che ho visto al cinema da bambino», dice. «Prendermi ora quell’eredità, ridandogli una nuova forma, l’ho trovato affascinante, anche se all’inizio avevo fifa. Non c’entra direttamente coi film originali, qui la necessità era quella di dargli, nel doppiaggio, anche più sfaccettature».

E proprio nella cornice del Sorridendo Film Festival, uno dei pochissimi circuiti italiani capace di valorizzare le diversità coniugando cinema e solidarietà, che l’attore, tra i premiati, rilancia e ci parla della recitazione di oggi.

"Molti pensano che il nostro lavoro sia facile, magico, invece sappiamo tutti che è difficile, è fatto di compromessi. Le carriere si basano anche sui no, per questo serve equilibrio personale e sapere che non si possano calcolare nel giro di pochi mesi, tarando le ambizioni rispetto alle decadi. Il sistema è sempre un po’ leale a se stesso, sono le persone che vi agiscono all’interno che hanno le possibilità e le competenze di poterlo cambiare. È un percorso ancora in salita, precario. Se mi volto indietro, nel giro di pochi anni di passi da gigante se ne sono fatti, il merito è delle generazioni precedenti, quanto delle attuali, che stanno cercando di invertire la rotta. Talvolta si è ancora incasellati, è vero, avviene sul peso, sui colori, ma basterebbe guardarsi intorno per vedere delle cose meno scontate. Il cinema sta lentamente agendo, è merito di alcuni produttori e casting coraggiosi, delle piattaforme, che stanno facendo il loro, a volte inciampando,  a volte no, a volte prendendo delle critiche. Non bisogna abbassare la guardia, dobbiamo caricare di più".